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Una barca sul bagnasciuga (ricordo di Giuseppe Bommarito)
(Testo  recitato dall’attore GIULIO CAVALLI la sera del 13 giugno 2013 nella piazza della sua Balestrate in ricordo dell’omicidio dell’appuntato dei carabinieri Giuseppe Bommarito)

È un gioco e se provi funziona. Basta crederci, certo, le cose che ci credi così forte da farti
sanguinare il naso poi succede che succedono davvero.
Prendi una strada, un marciapiede, ci metti il bene e il male, poi ci aggiungi un poco di mafia (poco,
e sottovoce, però) e niente mandanti. Poi ci sono i morti gli applausi e il sangue. E le
commemorazioni. Poi arrivano gli esecutori, poi arrivano i mandanti e passa la storia come passano
i lutti. Da noi i lutti sono cenere. Cenere che si alza una volta all’anno e si nota ma in fondo poi il
dolore è una brace nascosta.
Ecco, io quando mi metto a scrivere o a provare a raccontare una commemorazione mi sento
sempre una barca sul bagnasciuga. Si vede che ci sono fatto poco, per le commemorazioni. Per le
commemorazioni che sembrano un lunga messa laica in cui al ricordo conta che ci siano giusti il
condizionale e il congiuntivo e si perde l’aria, l’acqua, il mare e tutto il sentimento; e alla fine ci si
sente sul bagnasciuga, ecco, appunto, non so se oggi qui in piazza succede anche a voi.
È che Giuseppe Bommarito trent’anni fa era appuntato dei carabinieri, era scorta fedele di D’Aleo,
era collega di Pietro Morici, tutti nel solco di Basile e lì dove galleggiano i corpi degli eroi e le feci
dei mafiosi, ecco, è che Giuseppe Bommarito forse trent’anni dopo si meriterebbe, lui con tutti e gli
altri, che uscissimo dalle parole e provassimo ad essere anche noi coraggiosi, per una sera, come lui.
Coraggiosi nelle domande che fischiano più delle pallottole e rimangono conficcate nel cuore per
almeno altri trent’anni.
Quante parole dobbiamo inventare ancora per parlare ad una piazza dove stanno i sopravvissuti di
questi trent’anni? Che aggettivo dovrei riuscire a martellare per parlare agli orfani, i fratelli e quelli
per cui via Scobar è l’indirizzo del loro inizio del restare soli? Come guardiamo negli occhi queste
vedove che prese tutte per mano sono lunghe come una nazione? Come parliamo a questi orfani che
sono un nodo in gola che pesa come un pianeta con una faccia sempre al buio?
Oggi leggevo del padre di Giuseppe che appena saputo della nascita del figlio torna di corsa dai
campi per abbracciare la moglie e il neonato o di quando Giuseppe concedeva un “cinema” a sua
sorella con i soldi del proprio lavoro, ecco, io, dico a me, piacerebbe che in questa piazza si stilasse
un patto. Un patto per esercitare la memoria oltre che commemorarla. Un patto perché Giuseppe
non galleggi su Balestrate, su Monreale ma sedimenti. Scenda adesso con tutto il dolore così, senza
aggettivi inutili da teatranti, ma con tutta la pelle dura, le lacrime fiere e il ricordo inchiodato ogni
giorno, ecco, che Giuseppe scenda dalla testa e scivoli giù dal collo per il bracciolo della sedia e sia
terra. Terra di una terra che tra le parole che ha da confiscare ha anche le ferite che abbiamo sempre
avuto troppa paura di esibire. E terra che ci tenga forti e dritti.
Caro Giuseppe, io con le commemorazioni ultimamente sono una barca sul bagnasciuga che non si
sente nemmeno all’altezza di scegliere la punteggiatura per una morte di servizio. Non riesco
nemmeno a dirlo che burrone c’è tra la dicitura “dell’omicidio di Cosa Nostra” e la voce com’è
rimasta in gola ad un tuo figlio, non riesco a non sentire la vertigine tra il rumore degli spari e il
silenzio compito della memoria.
Possiamo, questo sì, però prometterci che non stiamo ad aspettare, andiamo a prendercele le onde
per disincagliarci dal bagnasciuga e andare in mare aperto. Eroici nello stare diritti e professionali.

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