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ECCO I COMANDAMENTI DELLA MAFIA

PALERMO – Qualcuno ha già inventato un colorito sillogismo: lupara d’ inchiostro. Per dire che Tommaso Buscetta adopera la penna e le parole per sbarazzarsi dei suoi nemici. Chi? I corleonesi, soprattutto: Luciano Liggio, Toto Riina, Bernardo Provenzano. Una bella fetta di mafia indicata dal boss palermitano quale scellerata responsabile di feroci delitti. Sulle confessioni di don Masino erano usciti in mattinata da un eccitato Palazzo di Giustizia nuovi particolari. Per esempio, egli avrebbe detto che fra i 366 mandati di cattura “non ci sono quelli che realmente contano”. Aggiungendo: “Adesso tocca a loro, a quelli che fanno veramente male, a quelli che hanno tradito cosa nostra”. Al gradino superiore, insomma, al “terzo livello”. Chi? Politici, industriali, gente che da anni nutre e si nutre della mafia. Gli inquirenti affermano che Buscetta abbia fatto i nomi delle “eccellenze”, ma c’ è chi come il consigliere istruttore Antonio Caponnetto confida: “Le sue rivelazioni ci hanno fornito elementi per individuare gli anelli fra il secondo ed il terzo livello”. Uno di questi anelli si chiama Ciancimino? E’ probabile, così come appare certo che l’ ex sindaco democristiano non sia il solo elemento di raccordo di quella perversa catena che lega mafia, politica e imprenditoria. Dopo il blitz di San Michele, la magistratura procede con grande celerità. I giudici parlano di “corsa contro il tempo”, intendendo di voler arrivare alle prime conclusioni entro il 2 febbraio, giorno in cui scatterà la legge sulla carcerazione preventiva. Per alcuni dei 366 infatti a quella data scadrebbero i termini di carcerazione “e una volta usciti da galera prenderebbero sicuramente il volo”. Un’ equipe di cinque giudici istruttori e cinque sostituti procuratori procede a ritmo serrato agli interrogatori. Intanto si delinea la possibilità che i più clamorosi fatti di mafia degli ultimi 15 anni vengano unificati in un solo maxi-processo. Il tutto prende le mosse da due mesi di interrogatori cui Buscetta si è volontariamente sottoposto. Una lunga confessione-analisi degli ultimi quindici anni della storia mafiosa e anche di più, ricca di particolari inediti e di precisazioni che hanno squarciato il velo su numerosi aspetti della geografia e della genealogia delle cosche, degli obiettivi e dei delitti, con tanto di esecutori e di responsabili. Ecco in una sintesi della motivazione per i 366 mandati di cattura, che cosa ha detto e che cosa ha permesso di accertare Tommaso Buscetta. LA STRUTTURA DI MAFIA – Secondo le dichiarazioni di Buscetta anche la mafia siciliana viene denominata Cosa nostra. Essa si articola in una struttura sostanzialmente unitaria e organizzata piramidalmente. Alla base dell’ organizzazione vi è la “famiglia”, rigidamente ancorata al territorio, in cui si distinguono gli “uomini d’ onore”, i “soldati”, i “capi decina” e infine il “capo-famiglia” o “rappresentante” che si avvale di un vice o di uno o più consiglieri. Al disopra delle famiglie vi è la “commissione” o “cupola” composta dai “capi mandamento”, cioè i rappresentanti di più “famiglie” contigue, e presieduta da un “capo commissione” che originariamente era denominato “segretario”. A quanto dice Buscetta, in ogni provincia della Sicilia, ad eccezione di Messina e Siracusa, esiste un’ organizzazione mafiosa strutturata in questo modo. Successivamente, ma già da diversi anni, sopra la commissione c’ è stata una “supercommissione interprovinciale” composta dai capi delle commissioni provinciali. Un organismo segretissimo, di cui Buscetta non ha mai fatto parte, che si occupa degli affari più grossi riguardanti più province. Per esempio, un imprenditore catanese che volesse svolgere la sua attività a Palermo dovrebbe chiedere il placet della “interprovinciale”. A questo proposito non si può evitare l’ accostamento con quanto disse e scrisse Dalla Chiesa circa la marcia sul capoluogo degli imprenditori catanesi. LE REGOLE – Si diventa “uomo d’ onore” solo dopo aver offerto prove inconfutabili di fedeltà e avere prestato giuramento. Successivamente si può avere accesso ai fasti dell’ organizzazione. Non ai principali e più delicati segreti, però, che possono essere conosciuti soltanto da chi ha un grado adeguato all’ interno di “Cosa nostra”. Un “uomo d’ onore” è tenuto ad eseguire senza mai chiedere spiegazioni e limitarsi a prendere atto di quanto gli viene riferito. Vige, tra gli uomini d’ onore, l’ obbligo di dire la verità: per chi trasgredisce ci sono pene severissime, fino alla condanna a morte. La detenzione in carcere non produce nè perdita nè allontanamento del vincolo. Quando un detenuto è capofamiglia, questa passa alla direzione del vice. Nessun omicidio può essere commesso senza l’ assenso del “rappresentante” della famiglia nel cui territorio deve essere eseguito il crimine. I fatti di sangue più gravi esulano dalla competenza dei capi-famiglia, ma vengono decisi dall’ intera commissione che ne affida l’ esecuzione ad “uomini d’ onore” scelti fra le varie famiglie, senza che sia necessario neanche informarne i rispettivi capi. E’ questo un meccanismo che ha provocato più di un dissidio, probabilmente anche la sanguinosa lotta di mafia fra agli anni 1981 e 1983. Occorre chiedersi a questo punto: come mai Buscetta aveva il semplice grado di “soldato” della famiglia di Portanuova? Per una questione… morale. Il boss non ha fatto carriera, pur essendo una persona di eccezionale prestigio nell’ ambito di Cosa Nostra poichè le sue vicende sentimentali (divorziato sposò un’ altra donna) non erano dai suoi capi ritenute degne di un “uomo d’ onore”. MAFIA E CAMORRA – I fratelli Nuvoletta, Antonio Bardellino, Michele Zaza e il suo vice Nunzio Barbarossa appaiono non tanto come camorristi ma regolarmente affiliati a Cosa Nostra. Inizialmente, spiega Buscetta, i rapporti tra questi delinquenti e la mafia erano esclusivamente di affari (contrabbando di tabacchi); in seguito, però, i loro legami con Pippo Calò, con i corleonesi (Liggio e Riina) e con i Greco di Ciaculli sono diventati così intensi che anche i napoletani, unico esempio finora noto, sono diventati a pieno titolo membri di “Cosa Nostra” di Palermo. Ciò offre la certezza dei collegamenti fra le due organizzazioni a delinquere e la rivelazione che i rapporti fra di esse sono più intensi e più stretti di quanto si supponesse. LA STRAGE DI CIACULLI – Buscetta ha squarciato un velo anche sulle grandi guerre di mafia. La prima è avvenuta nel 1963. Allora, egli racconta, a comandare la “commissione” di Cosa Nostra era Salvatore Greco, detto Cicchiteddu, con il grado di “segretario”. Al numero due della gerarchia (“capo mandamento”) c’ era Antonino Matranga, boss di Resuttana. Salvatore La Barbera era soltanto al numero 6. Mancavano completamente dall’ organico i corleonesi e infatti all’ epoca i rapporti fra Greco e Liggio erano pessimi. I corleonesi avrebbero sicuramente sferrato un attacco sanguinoso ai Greco, se a precederli non fosse stato La Barbera. O meglio, il crescente potere che la famiglia La Barbera andava acquisendo. Nel dissidio fra il boss della Palermo centro e la “commissione” si intrufolarono in molti, compiendo delitti e addossandone a La Barbera l’ esecuzione. Fino alle autovetture piene di esplosivo di spicco di Cosa Nostra, fino alla strage di Ciaculli, regno dei Greco. Lo scontro sanguinoso e l’ attività della polizia determinarono fughe precipitose e lo scioglimento di Cosa Nostra per sei anni, cioè fino al 1969 quando i grandi processi di mafia si esaurirono con la conseguente restituzione alla libertà di molti mafiosi. Emergono dalle confessioni di Buscetta responsabilità gravissime a carico di due personaggi finora rimasti abilmente nell’ ombra, quali Pippo Calò e Antonio Salomone, autori si numerosissimi delitti anche a carico di persone tuttora in vita. L’ organizzazione si ricomponeva nel 1970 dopo l’ uccisione di Michele Cavataio (ritenuto fra i principali colpevoli della carneficina del ‘ 63, la strage di via Lazio). La direzione cadeva nelle mani di un triumvirato composto da Riina (ecco comparire i corleonesi: Riina verrà poi accusato, con altri, del delitto Dalla Chiesa), Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti. Sotto questa nuova “gestione”, il 5 maggio del 1971 avviene il primo grande delitto di mafia (se si eccettua la scomparsa del giornalista De Mauro, il quale – secondo Buscetta – non venne assassinato dalla mafia), con l’ uccisione di Pietro Scaglione, definito dall’ ex boss palermitano “magistrato integerrimo e persecutore della mafia”. Voluto dai corleonesi l’ omicidio fu eseguito nel territorio di Porta Nuova (lo stesso dove viveva Buscetta), della cui famiglia già da allora era capo Pippo Calò. E’ evidente, dunque, quanto antichi e radicati siano i rapporti di colleganza fra i Calò e i corleonesi. Di organigrammi più recenti parla ancora Buscetta, spiegando l’ evolversi della gerarchia mafiosa. Dopo il triumvirato a capo della “commissione” balza Gaetano Badalamenti con Luciano Liggio “capo mandamento”. All’ arresto di Liggio (16 maggio ‘ 74) il suo posto viene preso da Salvatore Riina o da Bernardo Provenzano (8uscetta non ricorda bene). Nel ‘ 78 troviamo al vertice della piramide un altro Greco, Michele, detto “il papa” e nell’ 80 prende posto nella “commissione” un altro Greco, Pino, quale capo della famiglia di Ciaculli. Più in là, Buscetta non va. E’ l’ epoca in cui viene messo agli arresti. Sarà incarcerato a Torino, poi fuggirà approfittando della semilibertà. GLI OMICIDI – Il primo attrito tra Bontade e Badalamenti da una parte e i corleonesi dall’ altra arriva con l’ omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo (20 agosto 1977). La frattura d’ allarga col delitto Reina, il segretario provinciale della Democrazia cristiana assassinato nel marzo del 1978. Comincia così a scricchilare la solidità e la compattezza della “commissione”. I corleonesi tendono ad emarginare sempre più Stefano Bontade, Salvatore Inzerillo e Rosario Riccobono. I tre boss non vengono nemmeno avvertiti dell’ esecuzione dell’ esponente politico, pagando così il prezzo di un loro progressivo isolamento. L’ offesa più cocente Salvatore Inzerillo la subisce con l’ omicidio di Giuseppe Di Cristina, boss di Riesi, ucciso perchè ritenuto “troppo moderato”. Non solo Inzerillo viene tenuto all’ oscuro dell’ operazione, ma l’ esecuzione avviene dentro i confini del suo territorio, indirizzando così i sospetti della polizia proprio sull’ inconsapevole “don Totuccio”. La stessa regola vale per i successivi delitti compiuti all’ insaputa dei tre boss ormai in disgrazia. In particolare per l’ omicidio di Piersanti Mattarella, ex presidente della Regione, di Boris Giuliano, capo della Mobile e di Cesare Terranova, magistrato. Secondo il racconto di Buscetta i corleonesi ormai padroneggiano su tutto il campo tanto da pretendere l’ eliminazione di due personaggi scomodi come i capitani Emanuele Basile (ucciso il 4 maggio 1980) e Mario D’ Aleo (assassinato il 13 giugno 1983) comandanti della compagnia dei carabinieri di Monreale definita “un vero avamposto della lotta contro la mafia”. Inzerillo cerca la riscossa e si vendica a sua volta decretando l’ assassinio di Gaetano Costa, il procuratore della Repubblica che aveva firmato gli ordini di cattura contro gli affiliati al suo clan. Ma ormai la sorte dei “perdenti” è segnata. L’ errore decisivo è quello di Stefano Bontade che cerca di stringere una alleanza di ferro con i capi degli altri clan dicendosi disposto a “uccidere personalmente Salvatore Riina, nel corso di una riunione della commissione”. Il piano viene scoperto e Stefano Bontade viene trucidato il 23 aprile 1981. E’ l’ inizio della guerra di mafia. Poche settimane dopo tocca a Salvatore Inzerillo incaricato dalla commissione di consegnare cinquanta chilogrammi di eroina negli Stati Uniti. Viene freddato il 5 maggio dello stesso anno nonostante avesse comprato da poco una macchina blindata. E poi tocca agli uomini del clan Badalamenti, ai parenti della famiglia Inzerillo e allo stesso Tommaso Buscetta, accusato di voler riorganizzare le fila assieme a don Tano per risalire la china. Una strage inarrestabile dunque. In questo arco di tempo viene ucciso anche il professore Paolo Giaccone. (L’ omicidio viene attribuito da Buscetta alla cosca dei Marchese). Muore anche l’ agente della Mobile Calogero Zucchetto. Si arriva alla strage della circonvallazione, a Catania, per eliminare Alfio Ferlita e a quella Dalla Chiesa. Il primo è una sorta di “favore” resa dalla mafia palermitana a quella catanese. Il secondo vede la partecipazione degli uomini di Benedetto Santapaola, collegato con i corleonesi. Un favore ricambiato a colpi di kalashnikov, la stessa arma utilizzata per uccidere Bontade, Inzerillo e Ferlito. “I corleonesi avevano reagito alla sfida lanciata da Dalla Chiesa contro la mafia eliminandolo. Per altro – si legge nella motivazione dei magistrati – fatto questo veramente inquietante, qualche uomo politico della mafia si era sbarazzato di Dalla Chiesa divenuto ormai troppo ingombrante”. LA DROGA – Buscetta ha parlato infine del traffico di droga. Come già risultava da precedenti indagini, la trasformazione di morfina in eroina è stata effettuata, per un certo tempo, in laboratori clandestini comuni a tutte le famiglie. In questa attività, i catanesi hanno soprattutto compiti di trasporto. L’ esportazione negli Stati Uniti, fa capo prevalentemente a Giuseppe Bono e ai Caruana e ai Cuntrera della famiglia di Siculiana. In sostanza si è riproposta, per il traffico di stupefacenti, una situazione pressochè identica al contrabbando di tabacchi, con utilizzazione dei canali in precedenza usati per tale attività, ormai in declino da alcuni anni. Non è un caso, infatti, che i personaggi indicati da Buscetta come quelli maggiormente implicati nell’ importazione della droga dall’ est asiatico (Nunzio La Mattina, Tommaso Spadaro, Giuseppe Savoca) siano quelli che, nel passato, erano ai vertici del contrabbando di tabacchi.

di GIUSEPPE CERASA e FRANCO RECANATESI

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